Fu il re Luna Doppio Pettine, o Signor Cioccolato, a ripristinare, nel 695 d.C, la supremazia di Tikal, uno dei più grandi centri cerimoniali, culturali e politici della civiltà Maya.
La grande metropoli contava più di 6.000 edifici, di cui solo il 15% è stato ripulito dalla giungla pluviale tropicale. Il resto (l’85%) è nascosto sotto a radici, piante pioniere e liane. Tikal è oggi terra di scimmie urlatrici, tucani, pavoni selvatici e di strani animali con la coda lunga. E di turisti. Ci vogliono all’incirca altri 2000 anni, un mucchio di soldi e il meticoloso lavoro degli archeologici per farla emergere tutta, pezzo dopo pezzo.
Davanti al Tempio 1, la guida riproduce il verso del quezal, l’uccello simbolo del Guatemala, usando un’app del cellulare; poi batte le mani e l’eco del quezal si alza in aria forte e nitido. Tikal significa “luogo degli echi”: era più facile comunicare con gli dei e con le città-stato vicine se il suono si espandeva veloce nell’aria.
Le grandi piramidi, che arrivano fino ai 44 metri, erano costruite secondo i moti dei corpi celesti, seguendo una precisione edilizia quasi ossessiva. Il ciclo del tempo era infatti l’aspetto più importante per la religione maya.
I maya veneravano gli dei costruendo piramidi sempre più alte e con i sacrifici umani. Più il sangue era puro (come quello di una vergine, di un bambino, di un nobile, o, ancora meglio, di un re) più alta era la richiesta agli dei.
Con la caduta di Tikal cadde la civiltà maya classica. Le cause del crollo rimangono sconosciute. Forse siccità, forse epidemie, forse guerre tra vicini. Tuttavia ancora oggi i discendenti maya, durante gli equinozi e i solstizi, praticano gli antichi rituali davanti all’albero della vita di Tikal, anche se fu poi sostituito, dopo la conquista spagnola, con la croce. Gli indigeni lessero nella croce i quattro punti cardinali che simboleggiava l’albero della vita. E ci videro il moto del sole.