Il 1°gennaio del 1994 un gruppo armato dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) occupa il palazzo municipale di San Cristobal de Las Casas, in Chiapas, e dichiara guerra allo Stato messicano. Il motivo? Rivendicare, dopo secoli di sfruttamento, i diritti delle popolazioni indigene. Quali?
PANE. SALUTE. EDUCAZIONE. GIUSTIZIA E PACE.
Nello stesso giorno, entra in vigore il NAFTA (North American Free Trade Agreement), l’accordo di libero commercio tra Messico, Stati Uniti e Canada. Con l’entrata in commercio del mais transgenico della Monsanto, il prezzo del mais messicano cade del 70%. Da allora, migliaia di contadini, ridotti alla fame, lasciano il Chiapas, una delle regioni più povere del Messico, ed emigrano negli Stati Uniti per finire a lavorare come irregolari, quindi – di nuovo – senza diritti, in terre – di nuovo – altrui.
“Ogni anno, dal 1996, torniamo in Chiapas. Lo zapatismo è un pò come una telenovela, vogliamo vedere come va a finire.” V., esperta in zapatismo, sorride, spegnendo l’ennesima sigaretta.
Ci incontriamo al ristorante Tierradentro, nella via principale di San Cristobal, una graziosa città di montagna, nella Sierra Madre, nel sud del Messico. Alle pareti, manifesti zapatisti. Fotografie di volti nascosti dal passamontagna. Nelle fessure, sguardi giovani, saldi, fieri. Molte donne con fucili in mano, lunghe gonne fino ai piedi e robuste trecce nere. Con elegante austerità femminile, alcune allattano con il capo coperto dal passamontagna e il seno scoperto, color coccio. Le donne accettarono di appoggiare l’insurrezione zapatista ad una condizione: gli uomini dovevano smettere di bere. Da allora, l’alcol venne vietato nelle comunità zapatiste e le violenze sulle donne diminuirono drasticamente. Da allora, la rivoluzione zapatista prese il volto delle donne.
V. descrive la complessa struttura organizzativa zapatista: “All’apice c’è il CCRI-CG, il Comité Clandestino Revolucionario Indígena-Comandancia General, il più importante centro decisionale civile. Al Comité risponde l’esercito, l’EZLN, formato dagli insurgentes, i soldati, con a capo i/le comandanti e i/le subcomandanti. Non ci sono cifre ufficiali, si parla di 1000 soldati, mentre in totale gli zapatisti sono circa 200.000/300.000. Poi ci sono i Comitati Regionali, le Giunte del Buon Governo, i Municipi Autonomi e i pueblos. Le cariche elettive vengono scelte a rotazione e non sono retribuite, secondo il principio per cui la gestione della res pubblica è una responsabilità non un privilegio. Tutti se ne devono occupare.”
In breve, dopo i dodici giorni di guerriglia agli inizi del 1994, lo zapatismo si presenta ai tavoli del governo come un movimento politico, proponendosi come un’alternativa necessaria al capitalismo, chiedendo con fermezza la distribuzione delle terre, più istruzione e più salute. Con gli accordi di San Andrès il governo si impegna a riconoscere i diritti degli indigeni nella costituzione. Ma la promessa di trasformare gli accordi in legge non viene mantenuta. Lo zapatismo nel frattempo trova sostegno all’estero e la figura emblematica del subcomandante Marcos, portavoce del movimento, diventa un’icona internazionale. Nel 2001, gli zapatisti, sostenuti da una gran parte della società civile, marciano pacificamente a Città del Messico, in segno di protesta. La comandante Ramona, donna india tzotzil, precedentemente una sarta quasi analfabeta, alta poco più di una bambina, pronuncia il monito: “Mai più Messico senza di noi!”, nello Zocalo (la piazza principale della capitale), davanti a una folla di 100.000 persone.
Dopo l’ennesimo tentativo, fallisce la negoziazione con il governo e lo zapatismo chiude il dialogo. Nel 2003, a Oventic, si formalizza l’autonomia e l’indipendenza di cinque caracoles (Morelia, La Realidad, Oventic, La Garrucha, Roberto Barrios) che sono le strutture di coordinamento dei ventisette municipi autonomi ribelli zapatisti, nella Sierra e nella Selva del Chiapas. Le comunità indigene zapatiste si autorganizzano secondo i sette principi base del buon governo: 1) obbedire, non comandare; 2) rappresentare non sostituire; 3) scendere non salire; 4) servire e non servirsi; 5) convincere e non vincere; 6) costruire e non distruggere; 7) proporre e non imporre.
Prendiamo un taxi collettivo al mercato vecchio di San Cristobal, lasciamo velocemente la città, e dopo due ore di curve, arriviamo sulla cima di un monte, a Oventic, uno dei cinque caracol zapatisti. L’ingresso è bloccato da una lunga sbarra bianca. Un cartello con scritto “Para todos todo, nada para nosotros” (tutto per tutti, niente per noi) dà il benvenuto nel cuore centrale degli zapatisti di fronte al mondo. Al posto di controllo, una signora minuta con il passamontagna indossa gli abiti tradizionali tzotzil. Occhi scuri a mandorla, le solite lunghe trecce nere ai lati, le braccia tostate. Ci fa un cenno con la mano di aspettare. Alle nostre spalle un pollaio, poco più avanti un gruppo di bambini schiamazzano nella scuola zapatista, sul retro una tienda con il ritratto di Emiliano Zapata, il bracciante eroe che guidò, nel 1910, la rivoluzione messicana al grido “Tierra y libertad”.
Pochi minuti dopo, due ragazzi con il viso coperto da un foulard rosso ci chiedono i documenti e fanno alcune domande sulla nostra professione e sul motivo della visita. Avranno vent’anni, poco più. Compilano con estrema minuzia e lentezza i moduli d’ingresso. Si ritirano nell’ufficio, dicono di aspettare. Dopo una consultazione di circa mezz’ora aprono il cancello e una ragazza con il passamontagna ci accompagna per tutta la durata della visita. Non parla, ma gli occhi sono accesi e accoglienti.
Oventic si sviluppa in discesa, una strada asfaltata divide una sequenza di casette dipinte da murales con scritte e volti dell’ideologia zapatista. Le persone non si possono fotografare, gli edifici si. Passiamo davanti a un paio di negozi di artigianato, alla clinica, alla mensa, a vari uffici, fino ad arrivare in fondo dove c’è un campo da basket dismesso e un palco per i comizi. Scendendo ancora più verso la valle, sulla sinistra, un altro gruppo di case, tra cui la scuola secondaria e un altro campo da basket. Ai lati della strada, qualche uomo appisolato a terra, qualche donna intenta a cucire, qualche panno appeso, un paio di cani randagi. Scene di vita da montagna. Usciamo da Oventic dal retro di una piccola tienda con in vendita il merchandising zapatista: manifesti, passamontagna, anfibi, fazzoletti rossi, gadget, spille, magliette, etc. Ci sorprendono nel frigo le bottiglie di coca-cola.
Qualche giorno dopo, nel cammino per raggiungere un altro caracol, il Caracol Morelia, dove si terrà l’Incontro delle Reti di Appoggio al Consiglio Indigeno di Governo, confido a V. il nostro stupore sulla coca-cola. “Il processo decisionale zapatista parte dal basso, richiede il dialogo e il confronto tra tutti, quindi quando si tratta di prendere posizione su una cosa, ci sono infinite ore di discussione che spesso si trasformano in una gran rottura di coglioni. Così è stato per la questione della coca cola, che qui si beve più dell’acqua. Si doveva decidere se accettarla o proibirla. Alla fine non ce l’hanno fatta. L’alcol, grazie alla pressione delle donne, sono riusciti a vietarlo, ma la coca-cola no. Che ci vuoi fare, è così. Così com’è stata complessa la discussione collettiva su come fosse possibile creare un carcere giusto. Il sistema di giustizia zapatista è riparativo, vuol dire che la definizione della pena avviene tramite un accordo tra e il reo e la vittima, sulla base del principio che se il reo compie un illecito è la società ad aver fallito. Il caso viene presentato al pubblico e la comunità decide, dopo infinite discussioni che non sempre arrivano a una sintesi. Una volta mi è capitato di vedere un tizio legato ad un palo per due notti perché trovato ubriaco. I comandanti hanno il compito di tenere le fila. Ascoltano, rispondono e poi sintetizzano. Ma ci vuole tempo, tanto tempo.”
Arriviamo al Caracol di Morelia verso l’ora di pranzo, siamo tra i primi stranieri a partecipare all’incontro delle Reti di Appoggio, indetto dagli zapatisti per discutere sulla situazione post elezioni e sul tentativo, rivelatosi poi fallace, di concorrere alle presidenziali della portavoce indigena Marichuy. La sede dell’incontro, che durerà tre giornate, è una grande spianata in mezzo a verdi colline dove si appoggiano grosse nubi bianche. Siamo in montagna. Al nostro arrivo, già molte tende (semplici teli di plastica neri sostenuti da un bastone) riempiono, in verticale, la collina. Dalle una del pomeriggio, un flusso costante di zapatisti, a piedi o ammassati nei furgoncini, sfila ordinato nella strada principale. La maggior parte sono giovani, tra i venti e i trent’anni. Il clima è perciò allegro e frizzante, come l’aria.
Un gruppo di volontari coordina l’arrivo dei partecipanti, assegnando i posti per mettere le tende o per il dormitorio. Alle nostre spalle sfreccia in moto il subcomanante Marcos, oggi con il nome di Galeano, con tanto di pipa in bocca e addome ingrossato. Il tempo di un’occhiata, e si ritira, portando con sé l’alone di mistero che ha reso la sua ironia celebre al mondo. L’ingresso del cancello è sorvegliato da alcuni soldati dell’esercito dell’EZLN. Indossano la divisa militare, il passamontagna nero, un fazzoletto rosso al collo, scarponi robusti ai piedi e manganello alla cinta. L’esercito zapatista accettò l’accordo con il governo di non usare le armi ma si è sempre rifiutato di consegnarle.
Lo zapatismo è nato nel 1994 come un movimento di resistenza alle conseguenze disastrose, in termini di equità e di giustizia sociale, delle politiche neoliberiste incontrollate che hanno fatto sì che, oggi, il 10% più ricco della popolazione messicana detiene il 40% delle entrate nazionali (secondo i dati della Banca Mondiale), in un Paese dove il 46,2% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
Dal levantamiento zapatista, le condizioni di vita delle comunità indigene sono visibilmente migliorate in termini di benessere, salute e condizioni igieniche, istruzione, partecipazione politica e sul piano del riconoscimento dei diritti alle donne. In sostanza, non si muore più di fame, le donne hanno un ruolo politico e i bambini non girano più nudi.
Oggi, oltre al folklore, l’idea di un’alternativa quotidiana al capitalismo, “di un mondo dove possano coesistere molti mondi”, di una costruzione condivisa del consenso, di un tentativo di distribuzione equa della ricchezza, sembra resistere. In poche zone della Sierra Madre e della Selva Locandona del Chiapas. Tra pochi uomini e tra poche donne. Indigeni. Giovani. Con poco reddito. Con pochi mezzi. Con poco potere. Con poche armi. Ancora, resiste.