Yo Migro

Storie di migranti del Centro America in cammino
Abbiamo vissuto, dal 30 giugno al 3 luglio 2018, con e come i migranti del Centro America ospiti dell’Albergue de Migrantes di Padre Solalinde, a Ixtepec, nel Sud del Messico. Abbiamo mangiato con loro, dormito con loro e raccolto alcune delle loro storie. Questo reportage racconta ciò che abbiamo ascoltato e compreso.

L’Albergue de Migrantes di Ixtepec, gestito dall’organizzazione Hermanos en el Camino, si trova nello Stato di Oaxaca, in un territorio povero, squallido e torrido del Sud del Messico, a meno di un centinaio di km dalla costa pacifica. Quest’area, di nessun interesse turistico, è soggetta a violenti scosse sismiche e considerata un crocevia del narcotraffico. Qui, si trova il quartier generale dell’organizzazione criminale più pericolosa del Messico: Los Zetas.

L’Albergue, in questo ambiente inospitale e ostile ai diritti umani, offre quotidianamente cibo, rifugio, supporto psicologico, assistenza medica e consulenza giuridica alle migliaia di migranti del Centro America che, ogni anno, tentano di raggiungere illegalmente gli Stati Uniti in cima ai vagoni ardenti della Bestia, il treno merci che attraversa il Messico da Sud a Nord.

Lungo i 4.000 chilometri di rotaie della Bestia sono sorti, in Messico, circa una  cinquantina di Albergue gestiti da organizzazioni religiose o no profit, con lo scopo di alleviare le sofferenze di coloro che inseguono, rischiando la vita, il sogno americano.

L’Albergue di Ixtepec è nato, nel 2007, su iniziativa di Padre Alejandro Solalinde, un uomo coraggioso, di 72 anni, che ha sfidato il crimine organizzato e la corruzione delle autorità messicane. Difensore dei diritti dei più vulnerabili, candidato Nobel per la Pace nel 2017, vive da sei anni sotto scorta, per via delle numerose minacce di morte che l’hanno costretto all’esilio in Europa, nel 2012. Amnesty International considera Padre Solalinde uno dei difensori dei diritti umani più a rischio.

I migranti (chiamati anche indocumentados, i senza documenti) vengono principalmente dai Paesi del triangolo settentrionale del Centro America (El Salvador, Guatemala, Honduras), tristemente conosciuto come una delle zone più violente e pericolose del mondo. Secondo le statistiche del 2017 delle Nazioni Unite, El Salvador registra un indice di 60 omicidi ogni 100.000 abitanti; seguito da Honduras (42,7) e dal Guatemala (32) (fonte UNODC). A questi Paesi, si è aggiunto il Nicaragua: dallo scoppio delle proteste di aprile di quest’anno, molti nicaraguensi stanno scappando dalle repressioni violente del governo di Daniel Ortega.

Uomini, donne e bambini fuggono dal pericolo di uccisioni arbitrarie, rapimenti, minacce, reclutamenti forzati da parte delle gang o delle milizie, estorsioni, violenze sessuali. O semplicemente fuggono da povertà e miseria, in cerca di condizioni di vita migliori.  La migrazione nel Centro America è per molti invisibile, eppure ha i numeri di una grave crisi umanitaria. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR) sono 294.000 i migranti che nel 2017 hanno chiesto asilo negli Stati Uniti o nei Paesi limitrofi, il 38% in più rispetto all’anno precedente; una cifra 11 volte superiore a quella delle richieste di asilo presentate nel 2011.

Il cammino, che i migranti affrontano, è estremamente pericoloso, al pari della rotta mediterranea che intraprendono i fratelli dell’Africa. In comune il deserto e i mesi di cammino, ma invece su di una barca fatiscente, i migranti centro-americani salgono sui tetti della Bestia rischiando lesioni (anche mortali), i respingimenti della polizia e gli assalti dei narcos. La Bestia, così chiamata perché viene “montata” dai migranti in corsa, trasporta cereali e cemento e avvicina i migranti, al pari delle merci, alla frontiera degli Stati Uniti. Il treno parte da Tapachula, città messicana al confine con il Guatemala e, nello Stato di Queretaro, poco dopo Città del Messico, si snoda in tre rotte distinte che portano a tre diverse città di frontiera (Tijuana, Ciudad Juerez e Nuevo Laredo). La Bestia passa a pochi metri dal cancello dell’Albergue, sul retro, a giorni alterni. Quando fischia, cala un silenzio spettrale tra i migranti e alcuni di loro, guardando sfrecciare i vagoni rossi, si fanno il segno della croce. Sono numerosissimi i casi di mutilati che hanno perso braccia e/o gambe nel tentativo di afferrare il treno; altrettanto numerose sono le cadute dovute alle brusche frenate o alle gallerie troppo strette. Il tratto in treno è solo la prima parte del viaggio che devono affrontare i migranti, poi li aspettano i chilometri del deserto del Sonora, il passaggio illegale del muro (possibile solo pagando profumatamente trafficanti senza scrupoli), i posti di blocco della polizia e il rischio di essere deportati al Paese d’origine. Un gioco dell’oca, dove la probabilità di ritornare al via o, peggio, di morire è altissima.

Negli ultimi anni, a seguito dell’inasprimento dei controlli sul treno da parte degli agenti messicani del INM (Instituto Nacional de Migraciòn) e a causa dell’alto rischio di subire assalti e sequestri, molti migranti ritengono più sicuro camminare lungo le rotaie o seguire altre rotte, invece di affrontare il pericoloso viaggio in treno.

I migranti arrivano all’Albergue esausti, dopo le molte ore di cammino, con i piedi tumefatti, pieni di vesciche e funghi. Arrivano coperti di ferite e infezioni e disidratati, a causa delle molte ore di esposizione al sole senza acqua. Giungono affamati ed assetati. Soprattutto impauriti. Sono uomini, donne e bambini. Molti adolescenti. Famiglie. Affrontano il cammino soli o in piccoli gruppi. Vestono indumenti sporchi, alcuni sono scalzi. Molti vengono derubati e picchiati da criminali che gli strappano le poche cose che portano (cellulare, soldi, indumenti). Si stima che solo il venti per cento di loro riuscirà a raggiungere gli Stati Uniti. L’ottanta per cento verrà deportato o finirà in fosse comuni.

Dall’entrata in vigore del Piano di Frontera Sur del 2014, che sposta verso sud il confine meridionale degli USA, sono aumentati i casi di sequestro, di violenze e di rapimenti da parte delle maras o pandillas (le bande criminali legate al narcotraffico) e i respingimenti forzati della polizia messicana, spesso corrotta.

Un migrante è una merce redditizia: può arrivare a valere 7000 dollari. I sequestri fruttano anche se la persona sequestrata è un poveraccio e consentono di estorcere alla famiglia quel poco denaro che riesce a racimolare. Chi non ha una famiglia in grado di pagare viene ucciso, lanciato nelle fosse comuni e dimenticato.

L’Albergue è controllato 24 ore su 24 da quattro guardie armate, eppure è risaputo che tra i migranti si infiltrano i cosiddetti halcones, persone che si spacciano per migranti con l’obiettivo di passare informazioni ai sequestratori; o i coyotes (o polleros) che trasportano, a caro prezzo, i migranti al confine, spesso mettendoli nelle mani dei narcos. Caricare un migrante di droga è un buon modo per trasportarla al di là del muro.

Proteggere i migranti, vuol dire, quindi, diminuire considerevolmente i guadagni della criminalità. Per questo motivo, nel 2012, c’è stato un tentativo di incendiare l’Albergue. Lo scorso anno il direttore dell’Albergue, Alberto Donis,  guatemalteco di 35 anni, è morto in un incidente, le cui cause rimangono tuttora misteriose. Le proteste della comunità locale, impaurita dal flusso di migranti, sono diminuite solo negli ultimi anni grazie a un lungo lavoro di mediazione.

Nell’Albergue il tempo è immobile come l’aria, torrida e sporca. E’ il tempo dell’attesa. C’è chi si ferma un giorno, chi tre, chi finisce per rimanerci tutta la vita. Ogni giorno, nuovi arrivi.  Gli unici diversivi per ingannare il tempo: la tv, le partite a dama (usando i tappi della coca-cola), il campo da calcio (quando non è una grande pozzanghera per via delle piogge torrenziali), le battute (poche) tra i migranti e la lettura del vangelo. Il tempo è scandito dall’ora della colazione, del pranzo e della cena. Fagioli e riso, ogni giorno, per tutti. Ci sono giorni fortunati in cui si mangia tortillas con tonno o una fetta d’anguria. Nelle ore restanti si aspetta assieme il buio, il momento in cui buttarsi al suolo su dei materassi lerci e lottare contro le zanzare. Nel dormitorio non c’è spazio per tutti.

L’Albergue si regge sul lavoro di un’equipe (composta da assistenti sociali, psicologi, medici, cuochi, manutentori) e dei volontari, pieni di buona volontà, che arrivano qui da ogni parte del mondo. Ogni anno dall’Albergue passano circa 20.000 migranti in cammino. I deportati, coloro che vengono respinti al confine, ci passano più volte, tutte le volte necessarie per raggiungere gli Stati Uniti. Pochi ce la fanno, molti muoiono, molti continuano a migrare.

 

 

Paula, Guatemala.

Stanotte muoio di cancro. Devo andare in ospedale”. Paula scuote la testa in basso, alza lo sguardo solo un paio di volte, appoggia gli occhi sui miei, un istante. Mi chiede di accompagnarla in ospedale, poi ritorna con lo sguardo a terra. Forse per timidezza. Ha i capelli fino alle spalle, leggermente mossi, metà neri, metà di una tinta bionda, mal fatta. Ha un seno abbondante e molle,  ma ha soli 28 anni. Viene del Guatemala, soffre di schizofrenia ed è una delle poche donne migranti dell’Albergue. Cammina avanti e indietro, tutta concentrata ad assecondare il movimento schizofrenico dei pensieri. Gli unici, in queste condizioni ostili, a non lasciarla sola. Dà l’impressione di sapere come usare questo tempo immobile come l’aria, che fatica ad entrare. Fa un caldo terribile, umido. Paula mi dice che deve vedere il suo fidanzato, che non vuole sposare la persona prescelta dai suoi genitori. Dove sono i suoi genitori, in questo schifo, mi chiedo. I suoi occhi si fanno sempre più veloci. Non so che dirle. Ha un viso così dolce. Le dico che ha ragione, deve stare con chi ama. Al diavolo i suoi genitori. Si calma, mi sorride allontanandosi fuori dal cancello dell’Albergue. Mi rassicura. “Poi torno”. No, non tornare Paula, migra ancora una volta, migra da questo tormento. Paula s’allontana velocemente e ho paura. Fuori dall’Albergue ci sono las pandillas (le gang criminali), i sequestratori, i trafficanti, gente senza scrupoli che troverebbe il modo di usare Paula. Anche se Paula non ha una famiglia a cui poter estorcere denaro? La rincorro, le dico che ho voglia di bere un bicchiere d’acqua con lei, in cucina. Al sicuro.

 

Josè, Guatemala. 

Josè è un giornalista e pittore guatemalteco, di 57 anni. In questo girone di  anime erranti, in questo parcheggio di cani randagi, pare allegro. Mostra i pochi denti che ha in bocca, allargando bene le labbra. Sono denti gialli e storti. In Guatemala le sue denunce contro il governo gli sono costate care: un figlio, una moglie e un fratello ammazzati per mano della polizia. E per lui un sacco di botte. Si toglie la maglia. Il torace sporge in avanti e la pancia va all’indietro. E’ magro come il pennello che ha in mano. Sulla schiena sono ben visibili le cicatrici delle torture. Josè si vanta di conoscere il cammino per gli USA come nessun’altro. Per 12 volte ha percorso il Messico per entrare negli Stati Uniti, per 12 volte la polizia di frontiera, l’ha deportato. “Si, 12 deportazioni.  Avanti e indietro”. Lo ripete con orgoglio. Gli chiedo come avviene la  deportazione negli Stati Uniti. Dopo mesi di detenzione, e a seguito dell’ordine di espulsione del giudice, tutti i clandestini vengono messi in fila, con manette ai polsi e alle caviglie. Per tutto il viaggio, c’è il divieto di parlare. Saliti sull’aereo, che li restituisce come pacchi al mittente, la hostess recita le norme di sicurezza. “In caso di incidente, come facciamo a indossare il salvagente se abbiamo mani e piedi legati?”. Josè sorride. Chiedo se vuole dell’acqua. “Io non bevo mai acqua, altrimenti come si fa a sopravvivere al deserto? Molti muoiono perché hanno bisogno d’acqua. Io no, bevo solo coca-cola, che qui costa meno dell’acqua.” Josè ora dorme all’Albergue, racimola i soldi per il prossimo viaggio, vendendo dei piccoli quadri di carta a 25 pesos (un euro) che raffigurano i vulcani del Guatemala. Ci fa vedere il libro che sta scrivendo sul cammino: decine di pagine ingiallite e logore con qualche foto stinta. Lui sulla Bestia, lui nel deserto, lui in carcere. Lui all’Albergue. Lui che sorride. Solo. Per  12 volte.

 

Maria, Honduras.

Maria lascia l’Honduras a 17 anni con un sogno: lavorare negli Stati Uniti per  poter comprare una vera casa a sua mamma. “Nel cammino incontro una signora messicana ben vestita e gentile, che mi promette un lavoro e una casa. Dice che non devo preoccuparmi di nulla. Meglio un lavoro sicuro in Messico che correre il rischio di non arrivare mai negli Stati Uniti, penso. Salgo su un furgoncino. Ci sono altre ragazze con me. Ci lasciano davanti alla porta di un locale. Sull’insegna c’è scritto Bar Carnava. La Signora dice che la nostra casa è al piano di sopra. Entriamo, vedo una ragazza che si muove mezza nuda attorno ad un palo. Ai tavoli sono seduti molti uomini. C’è fumo. Non capisco. La signora ci prende i documenti, è meglio metterli al sicuro, dice. Ci ordina di indossare dei vestiti volgari e di andare giù nel locale a servire. Se disubbidiamo, ci porta alla Migra, la polizia dell’Immigrazione.” Maria ferma il racconto, s’accascia sulla panchina. Tappa gli occhi con le dita per fermare le lacrime. Sono occhi rossi, lisi. Io non dico nulla, mi limito ad appoggiare la mano sulla sua gamba. Me la afferra per stringerla forte. “Io non potevo immaginare, non potevo immaginare. Supplico la padrona di farmi schiava, di farmi lavare casa e vestiti, ma di non farmi fare quelle cose. Non ero proprio capace, non sapevo come si facessero. Poi ho dovuto imparare.” Maria resiste qualche giorno lavando biancheria intima, calze a rete e lenzuola sporche. Finché un uomo vecchio e ben vestito la nota e chiede di essere servito da lei. “Gli uomini non hanno nessuna vergogna. Non sapevo nemmeno che esistessero certe cose. Mi vergogno così tanto”. Maria perde la verginità in una squallida locanda senza che nessuno le abbia mai spiegato cosa vuol dire diventare donna. Da lì in poi decine di uomini passano sul suo corpo trucidi mentre la sua anima diventa sempre più leggera, più inconsistente. “Un giorno, esausta, decido di scappare senza documenti passando sotto la rete del giardino del locale. Poco dopo, incontro un uomo, mi dice che sono bella, mi offre un posto dove stare. Era diverso dagli altri, era gentile. Ero senza documenti, senza soldi, senza casa, senza famiglia. Avevo paura. Cosa potevo fare? Fidarmi di lui era l’unica scelta.” Maria rimane incinta. L’uomo smette di dirle che è bella. Al quinto mese, le afferra la testa e la butta contro il muro. Poi le chiede di perdonarlo. Maria perdona e arriva la seconda gravidanza. Ancora botte. Arriva il giorno in cui scappa di nuovo. Incontra Padre Solalinde che le offre supporto legale e psicologico, cibo e vestiti. Per lei e le figlie. Aiuta Maria a fare i documenti, ad uscire dalla vulnerabilità, dalla violenza, dall’umiliazione. “Io ho perdonato” mi dice “Il rancore è un peso. Io non non ce la faccio a portarlo. Dio saprà cosa fare. Io lascio fare a lui.

 

Fernando, El Salvador.

Ero appena salito sulla Bestia, e sento qualcuno prendermi il braccio e tirarmi giù per strapparmi l’orologio. Poi non ricordo più nulla. Era il 1975.” Fernando cade dal treno in corsa, si frattura entrambi i piedi, il polso destro e il naso. Perde l’udito. Parla con una voce così sottile, che devo stringermi a lui. Indossa delle ciabatte azzurre di plastica con le dita dei piedi che sporgono oltre il bordo. Le unghie curve e gialle. La mano destra se la porta appresso come fosse un peso morto. Ha gli occhi dolci e scuri di un bambino senza madre. “Una notte ho visto Gesù nel sogno. Mi ha chiesto quanto poteva resistere la mia fede. 2 anni? 5 anni? 10 anni? Passato quel tempo sarei potuto ritornare a camminare. Mi sono svegliato nel letto di un ospedale e per la prima volta, dopo sei anni dalla caduta del treno, potevo stare seduto! Ho iniziato a muovere un piede dietro l’altro Camminavo! Le infermiere non ci credevano. Sono caduto dalla Bestia per poter incontrare Dio e da quel giorno ho deciso di servirlo.” Fernando fa il volontario nell’Albergue da quanto l’Albergue è nato. “Questa è la mia famiglia. Non saprei dove altro andare”.

 

 

 

Paula, Josè, Maria e Fernando sono nomi di fantasia, ma le loro storie sono vere, come è autentico il dolore – sordo e remoto – delle persone prive della protezione di uno Stato, o più in generale del Diritto, che vivono in una condizione di estrema vulnerabilità, tollerabile solo grazie ad una fede assoluta in Dio. Nessuno di noi piangerà se Paula, Jose, Maria e Fernando se ne andranno, un giorno, senza far rumore.  Le loro morti non fermeranno le violenze o la povertà dei loro Paesi d’origine, né impediranno l’arricchimento dei criminali, né attaccheranno l’indifferenza di molti.  Non cambieranno le leggi ingiuste e il loro destino di rimanere irrimediabilmente disattese. La verità è che a Paula, Josè, Maria e Fernando, e agli altri fratelli del cammino, non importa se saranno deportati una volta arrivati al confine. Tenteranno sempre di attraversarlo, per decine di volte, finchè ce la fanno o finché muoiono. Stati Uniti e Europa – per paura, egoismo o ricerca di consenso elettorale –  potranno costruire muri sempre più alti, irrigidire i controlli delle frontiere, emanare leggi sempre più severe. Ma il risultato già lo conosciamo: migliaia di morti (per terra e per mare) e un gran favore alla criminalità. Non è possibile impedire a un padre e a una madre di cercare un futuro migliore del loro per i propri figli. Non c’è alternativa che regga, perchè non lo accettiamo?

Tocca a noi, che dalla nostra casa non siamo costretti a scappare, a fare in modo che le loro vite non siano vane, che gli venga assegnata una dignità, una consistenza, un valore.